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Attualità martedì 05 maggio 2020 ore 18:25

Gino Bartali e quelle passioni segrete in Valdarno

Bartali racconta una storia divertente all'amico Fondelli

Storie e foto inedite del campione di ciclismo scomparso vent’anni fa. Quella volta che i compagni di allenamento lo aspettarono invano all’Acquaborra



VALDARNO — Ginettaccio burbero e brontolone? Una fake news si direbbe oggi, nel giorno in cui si ricordano i vent’anni dalla sua scomparsa. In realtà Gino Bartali era un uomo che amava le battute di spirito, almeno quanto apprezzava il cibo genuino e il vino buono. E il Valdarno era la terra dove poteva dar sfogo, in modo riservato, alle sue “passioni”: ridere a crepapelle con gli amici che avevano condiviso con lui la polvere delle strade, e nello stesso tempo gustare un piatto della tradizione contadina. La foto in bianco e nero che pubblichiamo, mostra un’immagine inedita di Bartali, colto proprio nel momento in cui racconta una due sue spassose storielle all’amico ciclista Ugo Fondelli, il quale non si trattiene dal ridere.

Pochi e selezionati amici avevano il privilegio di gustare, a tavola, la compagnia del vero Bartali: quello arguto, spiritoso, ironico. Succedeva ad esempio nelle sere in cui Gino arrivava a Matassino, nei pressi di Figline Valdarno, in compagnia della moglie Adriana. Velocemente si infilava in casa di Valeriano Falsini (il ciclista protagonista del film “Mi chiamava Valerio”) dove trova ad attenderlo, oltre gli amici di sempre, anche un piatto fumante di coniglio fritto, il preferito di Gino.

La passione di Bartali per il cibo casalingo è quasi proverbiale. Una passione alla quale non rinunciava mai, neanche durante la stagione agonistica. Lo testimonia proprio un fatto avvenuto in Valdarno nella primavera del 1948.

Qualche mese prima della trionfale avventura al Tour de France, quella che nella tradizione viene indicata come la vittoria che salvò l’Italia dalla rivoluzione, Gino lasciò di mattina presto la sua Ponte a Ema per allenarsi sulle strade del Chianti e del Valdarno.

Pedalava verso Arezzo insieme ad alcuni corridori toscani, quando, giunto poco dopo Montevarchi, Gino Bartali decise di staccarsi dalla compagnia: “Mi fermo a salutare un amico” disse al gruppetto di ciclisti “Ci troviamo tra dieci minuti alla fonte dell’Acquaborra”.

L’acqua rugginosa in riva all’Arno era una tappa obbligata degli atleti in allenamento. Acqua fresca e ricca di ferro, ideale per riempire le borracce con il tappo di sughero. Ma quella volta l’attesa degli amici si prolungò oltre i dieci minuti prefissati. Anzi, trascorse quasi mezz’ora, ma di Bartali nessuna traccia. Allora gli amici cominciarono a preoccuparsi. “Avrà forato una gomma?” si chiese uno. “Sarà caduto?” si domandò, preoccupato, un altro. Alla fine decisero di tornare indietro a cercarlo. Pedalavano lentamente mentre sbirciavano nei fossi laterali, temendo che qualche macchina avesse investito l’amico. Sempre più preoccupati lo chiamavano a gran voce “Gino!”, “Gino deve sei?”. Dopo una decina di minuti in angoscia, un contadino si affacciò alla finestra e, con un atteggiamento quasi minaccioso, urlò contro di loro: “Cosa volete da Gino? Lasciatelo in pace! Sta mangiando un piatto di ribollita!”


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